Congresso
PdCI Federazione di FERRARA
17 gennaio 2004
Contributo
di Elena Grimaldi
Io
chiedo poco tempo, ma ritengo necessario aprire questo discorso: si tratta della
necessità di affrontare un’analisi approfondita ed efficace sul tema della parità
di genere di cui del resto anche il nostro documento congressuale si
occupa là dove dice che “occorre assumere
le differenze, a partire da quella di genere, come misura dell’equità e
dell’efficacia delle politiche pubbliche, per rendere sostanziale il principio
di uguaglianza dei diritti e per garantire l’effettiva universalità dei
sistemi pubblici di protezione sociale”.
E’ questo
infatti elemento essenziale per un partito che vuole lavorare per la sinistra.
Voglio inoltre
ricordare che nel nostro Statuto è stabilito in modo tassativo che la presenza
delle donne in tutti gli organismi dirigenti deve essere garantita al 50%.
Oliviero Di
liberto nella relazione del Comitato Centrale
29-30 novembre 2003 ci ha voluto ricordare che il 52% degli italiani è donna, e
il fatto che “nel Parlamento, nelle istituzioni, ci sia il 4% di donne è
incredibile”. Aggiunge poi “se una colpa io faccio al partito è di
non avere sufficientemente pubblicizzato questa nostra capacità di
innovazione”.
Subito dopo
però con soddisfazione sottolinea la circostanza che il 42% degli esponenti del
PdCI nelle amministrazioni pubbliche (dai Conigli comunali fino al Parlamento)
è composto di donne e si tratta di un dato sorprendente se si pena che la
percentuale dei DS nelle istituzioni è del 9%: uno scarto enorme.
A questo punto
però io voglio sottolineare un dato che è emerso nella prima fase del nostro
congresso – mi riferisco ai congressi di sezione della nostra provincia –
dal quale risulta che gli interventi di donne sono stati davvero pochissimi: nella maggior parte delle
sezioni di provincia le donne non hanno per nulla parlato, pur essendo presenti;
nel congresso della sezione della città di Ferrara su 16 interventi solo 4
sono stati di donne.
Mi sembra
questo un fatto importante su cui ritengo che si debba riflettere ed è questo
il momento e il luogo giusto per farlo. Non posiamo davvero accettare l’idea
che il reclutamento delle donne avvenga in modo forzato o che comunque sia
incapace di fare proposte per analizzare le proprie esigenze.
Mi chiedo
prima di tutto: questo silenzio è segno di disagio? Non necessariamente, ma è
comunque un ostacolo per il partito nel suo insieme per comprendere quali siano
davvero le aspettative delle donne che si avvicinano alla nostra organizzazione
e che dalla loro partecipazione politica i aspettano sicuramente qualche cosa.
Perché o noi
riusciamo in questo compito di dare vita a un reale protagonismo, o rischiamo di
perdere una presenza che nelle nostre intenzioni è certo importante ma che
rischiamo di oscurare poi nei fatti se non sappiamo suscitarne l’operatività.
Qual è
infatti il rischio che corriamo? Che questa potenzialità invece di apparire e
produrre idee finisca per rifluire e
abbandonarci. Sto cercando insomma di dire
che vi è tutta una ricchezza di idee e proposte che v a ricercata perché
è una grande occasione di crescita del nostro partito e non soltanto una
crescita quantitativa.
Che fare? Non
è semplice avanzare proposte anche se ritengo che su questo terreno non siamo
all’anno zero: chi ha memoria non può non ricordare quale grande movimento di
donne si sia prodotto nel nostro paese in anni che non sono poi così lontani.
Il movimento degli anni ‘7°, che è nato – se si deve ricordare l’idea
centrale, l’idea fondante che è riuscita a coinvolgere tantissime ragazze e
donne di tutte le età l’idea che
in Italia, nel mondo, il ruolo
della donna, sia nel lavoro, sia nel sociale, sia nella politica era stato ed
era da sempre di subalternità e che tale subalternità traeva origine dai rapporti della famiglia,
nella quale secondo la cultura dominante il ruolo della donna moglie-madre
doveva rimanere di supporto sicuramente economico ma anche affettivo, di cura
alle necessità del nucleo famigliare, che è poi il nucleo economico su cui si
fonda il tessuto sociale; che tale cultura
(la cultura della subalternità insomma) era nata
strettamente connessa ad un disegno programmatico-politico di una classe
egemone che ha sancito insieme a questa molte altre forme di subalternità,
tutte funzionali ad un sistema di potere economico prima ancora che politico.
Rompere questo rapporto di subalternità da parte della donna rappresenta di per
sé un’azione portatrice di trasformazioni a vari livelli fino ad arrivare
alle proposte della politica. Da questa idea di fondo è nato negli anni
’70-’80 un forte rapporto tra donne e politica che è diventato
operativamente concreto esclusivamente nel PCI, e non poteva che essere così
essendo l’unica organizzazione politica capace di fornire gli strumenti di
analisi tra rapporti culturali e quelli economici tra le classi sociali. Tale
processo si è realizzato – inutile ricordarlo – solo in parte, anche se
molte battaglie sono state fatte, battaglia che a volte ci hanno visto vincenti:
mi riferisco alla difesa della legge 194, il cui significato sta soprattutto
nell’idea che la maternità è un valore sociale che va tutelato nell’ambito
pubblico.
Mi fermo qui.
Io credo che questo lavoro – che è stato abbandonato da tutti - vada ripreso.
DOBBIAMO
ORGANIZZARE LA CRESCITA DEMOCRATICA DEL PARTITO DANDO A CIACUNO LO SPAZIO E IL
TEMPO PER ANALIZZARE LE CONTRADDIZIONI CHE VIVE NEL LAVORO MA ANCHE – IN MODO
PIU’ ESTESO – IN TUTTI I
RAPPORTI, COMPRESI QUELLI CHE A VOLTE POSSONO APPARIRE I PIU’ LONTANI DAL
NOSTRO LAVORARE POLITICO. E’ UN TEMPO CHE DOBBIAMO PRENDERCI, E’ UN TEMPO
CHE SARA’ SPERO BENE. NON SARA' UN LUSSO. E’ UN VERO BISOGNO PER LA NOSTRA
CRESCITA.
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